Nell’ambito delle celebrazioni per la Giornata della Memoria, venerdì 12 febbraio nel teatro della scuola le classi seconde e terze hanno avuto il privilegio di incontrare il Signor Valota, presidente dell’ANED di Sesto S. Giovanni (associazione nazionale ex deportati).
Nella cornice di quello che fu l’ospedale da campo S. Clemente nonché il centro di raccolta per ex deportati, organizzato da don Enrico Mapelli, Giuseppe Valota ha tracciato, con straordinaria capacità di coinvolgimento, gli anni bui 1943-1945 nell’area industriale di Sesto. La vicenda del padre Guido, deportato politico caduto a Mauthausen, ha offerto, al di là del dramma personale, uno spaccato di come si viveva allora, delle enormi difficoltà di tirare avanti nella miseria estrema in cui ci trovava, ma anche della dignità delle persone e delle famiglie nella loro povertà, nella solidarietà, nella partecipazione.
Attraverso il dialogo con i ragazzi, il Signor Valota ha offerto un potentissimo vaccino contro indifferenza, ingiustizia, discriminazione e violenza, malattie che ancora non sono scomparse dalle nostre società.
E’ notte fonda. Le 2:30 per l’esattezza. Al primo piano di una casa di via Carlo Cattaneo, 38 bussano alla porta. La canna di un mitra entra nell’appartamento. È la polizia, arrivata per arrestare Guido Valota. La moglie grida e prova a dire che suo marito non è un delinquente. La polizia, però, non sente ragioni. Guido è uno dei tanti che hanno partecipato allo sciopero e chi li arresta lo fa soprattutto per lanciare un messaggio: ecco quello che succede a coloro si oppongono al regime. Guido non è un oppositore politico, ha solo smesso di produrre ciò che era la fonte delle sue disgrazie. Con la guerra le ore di lavoro sono aumentate, le fabbriche sono state militarizzate, la vita è diventata impossibile: è per questo che trecentomila lavoratori del Nord Italia decidono di scioperare. Il 1 marzo 1944, al suono della sirena delle 10:00, gli operai smettono di lavorare e tutte le macchine si fermano. In molti verranno arrestati. Guido viene portato a San Vittore: ora non è più una persona. Dal carcere viene caricato su un treno merci insieme a tanti altri stücke, ovvero pezzi, perché è questo che sono Guido e gli altri uomini per i loro aguzzini. La destinazione è Mauthausen, un campo di sterminio in Austria: qui Guido smette di essere una persona, di avere un nome, dei diritti. Sarà solo un numero: 59186. Quando ormai la guerra è prossima alla fine, i Tedeschi capiscono che la disfatta è vicina, così decidono di riportare i prigionieri ai campi principali, passando per vie secondarie, per non ostacolare la ritirata dell’esercito. Un mese prima della liberazione del campo di Mauthausen, avvenuta il 5 maggio 1945, durante una marcia della morte, Guido crolla per gli stenti e non si alza più. Uno nazista gli spara alla nuca, e gli toglie la matricola: sul sentiero rimane solo un corpo senza nome e identità, esattamente quello che volevano i nazisti. È compito nostro dare a quel corpo un volto, un nome e una storia.
Rebecca Borgonovo ed Elisa Lucà
A scuola abbiamo incontrato Giuseppe, figlio di Guido Valota. Non so dire esattamente cosa mi abbia colpito di più, tutto di questa giornata mi ha lasciato un segno così forte, da uscire dal teatro con l’anima in subbuglio. Non avevo mai ascoltato una testimonianza diretta, dal vivo. Ho sempre sentito parlare della guerra e dei lager solo indirettamente, da mia mamma o dai miei prof. Avevo sentito anche testimonianze come quella di Liliana Segre. Mi sono accorta, però, che ascoltare un racconto dal vivo è ben altra cosa. Lo schermo della televisione è comunque un filtro, così come le pagine di un libro. Non puoi percepire il tremolio della voce, la decisione negli occhi: tutto viene mediato dalla carta, o trasformato in migliaia di pixel. C’è sempre un mezzo fra te e quella persona, un filtro che non ti farà sentire fino in fondo le parole cariche della verità vissuta, quella verità che ti entra dentro e ti scuote, per lasciarti tremante davanti a quella nuda e cruda verità. Ecco, l’incontro con Giuseppe Valota mi ha proprio scossa, segnata, cambiata, resa consapevole. Fino a quando certe pagine di storia te le raccontano altri che non le hanno vissute, non le capisci: è questa la cosa che mi spaventa, perché le generazioni future non avranno la possibilità di sentire una testimonianza diretta, ascolteranno sempre la narrazione da altri che l’hanno a loro volta sentita da altri. Sarà un po’ come un telefono senza fili: più si va avanti, più si rischia di perdere la verità della testimonianza, la vera essenza. Non possiamo correre questo rischio: non possiamo permettere che il passato venga dimenticato, cambiato o attenuato nella sua brutalità. Ora tocca a noi, c’è stato uno scambio di testimone. Tocca a noi farci carico della responsabilità che la testimonianza rimanga sempre vera, pura e brutale, come purtroppo è stata la storia.
PERCHE’ LA MEMORIA È CONOSCENZA, E LA CONOSCENZA È LIBERTA’.
Rebecca Borgonovo
Quando ho saputo che sarebbe venuto a scuola un signore per parlarci dei tempi della Seconda guerra mondiale… diciamo che l’idea non mi entusiasmava granché: pensavo che sarebbe stata la solita storia già sentita. Dopo essersi presentato, Giuseppe Valota ha cominciato a parlare delle fabbriche di Sesto: erano moltissime (c’erano la Falk, la Breda, la Pirelli, la Marelli…) e attiravano migliaia di operai, anche da fuori provincia, come suo padre Guido, che arrivava dalla Bergamasca. Poi ci ha raccontato di uno sciopero avvenuto nel marzo 1944, di cui non sapevo nulla. Ecco, in quel momento era come se avesse avuto un cilindro in mano e ne avesse tirato fuori un coniglio, catturando tutta la mia attenzione e curiosità. Finalmente qualcosa di nuovo. Quella mattina del ’44 quasi tutti gli operai nel Nord Italia, al suono della sirena, non iniziarono a lavorare. Le fabbriche erano costrette a produrre armi per la guerra. Mi ha colpita profondamente questa risposta contro il regime fascista. A causa di questo sciopero, però, moltissimi lavoratori furono arrestati, caricati su un treno e portati in un campo di concentramento, proprio come suo padre.L’argomento che mi ha colpito di più in assoluto, e anche di questo non sapevo nulla, è stato il racconto riguardo i deportati politici, che erano in numero maggiore rispetto agli ebrei deportati dall’Italia.La terza cosa che mi ha colpito è stata la storia di un amico di suo padre, che, ferito dai Tedeschi, disse che non voleva vendetta, ma giustizia. Ho provato a immedesimarmi in quell’uomo, e, se ci fossi stata io al suo posto, molto probabilmente avrei voluto vendetta. Ci vuole tanta, ma tanta forza di volontà per dire di non volere vendetta. Mi è venuto in mente quanto ha scritto Liliana Segre ne “La memoria rende liberi”: vede un generale tedesco, in fuga da Auschwitz, buttare la pistola a terra, lei ha la tentazione fortissima di raccoglierla e per un momento pensa di vendicarsi, ma non lo fa. Perché lei non era come loro, voleva essere diversa.
Beatrice Cantatore
Mi ha molto colpito quando il Signor Valota ha raccontato l’episodio della deportazione del padre: i Tedeschi presero i lavoratori e li fecero salire su un vagone, chiamandoli stücke (pezzi) come fossero degli oggetti e facendoli viaggiare in piedi per trasportarne di più. Mi ha impressionato tanta disumanità. E poi mi sono rimasti impressi la ronda fascista armata che schiaffeggiò suo padre perché non aveva salutato e lui, che poi si mise a piangere per l’umiliazione subita. Testimonianze quali quelle di Giuseppe Valota sono sconvolgenti perché ci mettono davanti a come possono diventare le persone, se guidate da una ideologia sbagliata. Ecco perché mi è piaciuta molto la frase che ha pronunciato: la memoria è conoscenza e la conoscenza è libertà.
Giulio Frigerio
Ciò che il Signor Valota ci ha detto mi ha molto impressionato. Soprattutto per il modo in cui ci ha fatto la sua testimonianza: sono riuscita a immedesimarmi nei suoi racconti. E ho vissuto la disperazione del padre a Mauthausen, il coraggio della madre, la paura sua e di tutta Sesto durante i bombardamenti e l’audacia di circa 400.000 operai italiani che, al suono della sirena, alle ore 10:00 del 1° marzo 1944 decisero di scioperare e di smettere di produrre le armi che causavano la loro situazione di miseria. Sentir parlare del coraggio dei cittadini sestesi all’interno del teatro, che un tempo era stato un ospedale e poi un centro di raccolta per i militari italiani che giungevano dai campi di prigionia, non solo mi rende orgogliosa della mia città, ma mi fa anche riflettere sul motivo di tanta atrocità. E siccome fatti del genere accadono ancora, penso che l’unico motivo sia l’ignoranza. Su questo si potrebbe scrivere un poema, ma mi limiterò a fare un semplice ragionamento: noi non possiamo modificare il passato, non possiamo tornare indietro, però nel presente possiamo combattere con l’unica arma che può sconfiggere l’ignoranza: la conoscenza. La conoscenza è ciò che può cambiare ognuno di noi in meglio. E, dato che non possiamo mutare il passato, agendo nel presente, possiamo cambiare il futuro. Come dice Malcolm X “la scuola è il nostro passaporto per il futuro poiché il domani appartiene a coloro che oggi si preparano ad affrontarlo.”
Sara Bernardelli
“…Com’è possibile che tutto questo venga ricordato in un solo giorno?” Così il Signor Valota ha concluso il suo intervento. Un giorno. Un solo giorno, per ricordare le migliaia di persone morte in quegli anni. Un giorno. Il 27 gennaio. È con queste parole che sono davvero riuscita a capire quello che molti, tramite libri, film e interviste, cercano di raccontarci per trasmettere anche a noi, sempre considerati generazione viziata, come hanno vissuto il loro dramma. Noi stiamo vivendo una pandemia, una guerra contro un virus, ma loro di guerra hanno vissuto quella vera, quella in cui i padri se ne andavano di casa per sempre, quella durante la quale le persone erano costrette a rifugiarsi nei sotterranei, quella in cui erano le donne, rimaste sole, a mandare avanti le famiglie. Quel momento storico che, però, ci permette oggi di essere delle persone con diritti, delle persone libere. E l’unica cosa che ci viene chiesta in cambio è di non dimenticare. Ho apprezzato molto l’intervento del Signor Valota: quella mattina non stavamo leggendo un libro, né vedendo un film, nemmeno ascoltando un’intervista sentita tante altre volte. Lui era lì: era una persona vera, che adattava la sua storia alle nostre curiosità, al nostro carattere. Una persona vera, venuta a raccontarci la sua storia: quella storia che ora è anche un po’ mia, e che non intendo dimenticare.
Sofia Baiguini